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      Si amavano entrambi; ma in un modo troppo dissimile, come portavano i due diversi caratteri, i due opposti temperamenti.
      Romilda gracile, delicata preferiva tutto ciò che è gentile e geniale; abborriva gli scatti impetuosi, le improvvise bufere, la parte dirò così tragica della passione. Il suo affetto per Raffaele giungeva alla adorazione, ma un’adorazione muta, religiosa, scaturente più dagli atti che dalle parole. Aveva per lui delle tenerezze quasi infantili, delle finezze che non avrebbero potuto esser comprese, se non da un’anima mite e soave, come la sua. I suoi abbracci le lasciavano nelle fibre delle vibrazioni lunghe, deliziose e snervanti insieme.
      Raffaele, per converso, era di un temperamento che lo portava ai trasporti più violenti. Quando la foia lo investiva, non era più un uomo, ma una belva, che ruggiva d’amore e trovava sempre troppo freddi gli amplessi della sua donna. Ne seguivano scene terribili, dalle quali Romilda usciva disfatta.
      La sua salute si alterò. Fu assalita da una malattia di languore, che faceva continui ed allarmanti progressi. I medici rimproveravano a Raffaele le sue esuberanze ed egli parve chetarsi e mutar carattere tutto d’un tratto. Diventò buono, docile, paziente, teneramente affettuoso. Non voleva che altri all’infuori di lui prestasse le cure a Romilda. Ebbe per lei le finezze previdenti di una madre, le solerzie di una suora infermiera. Le era sempre accanto, giorno e notte; le porgeva le medicine e gli alimenti, la adagiava sul letto, sollevandola come una bimba colle proprie braccia; ne la toglieva per metterla sulla poltrona a sdraio dove passava gran parte della giornata.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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