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      - Signora mia, voglia compatirmi, ho ventisette anni.
      - Compatisco: ma mi pare che abbiate una età da potervi ammogliare. Perché non lo fate?
      - Chi vuole che mi prenda, signora? Sono povero come Giobbe.
      - Pure cogli assegni che avete da mio marito avreste potuto mettervi da parte qualche cosa.
      - Lo vorrei ben fare, ma...
      - Ma?...
      - Mi si squagliano appunto nelle serate che passo fuori di casa.
      - Così vi aggirate sempre in un circolo vizioso: non potete prender moglie, perché non risparmiate; non potete risparmiare perché non avete moglie.
      - Proprio così, signora.
      - Basta, pensate a metter giudizio, perché il tempo vola e quando vorreste farlo non sarete forse più a tempo.
      Quest’era la solita conclusione dei loro dialoghi.
      Giovanni se ne andava ridendo nel suo cuore. Effettivamente non prendeva moglie perché stava troppo bene senza.
      I Facenni avevano una unica figliuoletta, bella come un amore e già magnificamente sviluppata, benché sedicenne appena, molto svegliata e un bel po’ capricciosa, perché guastata dalla indulgenza soverchia dei suoi genitori.
      Si chiamava Elsa ed aveva dell’eroina della leggenda tedesca, le chiome bionde prolisse, che le coprivano tutta quanta la persona, come un manto, quando le scioglieva e se le lasciava cader sulle spalle. Aveva pure l’alta e slanciata figura, i grandi occhi azzurri, il profilo del viso soavemente delicato e puro; la pelle candida e fine; le rose delle guancie incarnate; la bocca perfettamente disegnata, nella quale, fra il rosso quasi incandescente delle labbra, si celavano due filari di perle, piccole e quasi diafane.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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