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      Ma questo gli era impossibile, perché era stabilito per patti, che Rosa non avrebbe mai lasciato il palazzo principesco, durante l’allattamento. Giuseppe non poteva parlare con sua moglie che in presenza della cameriera e della governante.
      Il macellaro se ne struggeva. E quasi non gli bastasse l’interno cruccio si aggiungevano i motteggi degli amici e dei conoscenti, i quali si vendicavano dell’austerità di Rosa, verso di loro, suscitando le gelosie del marito.
      - Eh! Beppe da quanto tempo non abbracci tua moglie? gli diceva uno.
      Un altro: - Te la lasciano almeno vedere?
      Un terzo: - Forse prende il latte anche il principe? Dicono che le è sempre attorno. Dopo tutto non ha torto. Era il più bel pezzo di carne che avevi in negozio.
      Macchia si schermiva alla meglio, ma nel suo interno fremeva e malediva l’ora e il momento in cui si era lasciato vincere dalla gola del denaro.
      Finalmente prese il suo partito. Andò da Rosa e le spiattellò chiaro e tondo che intendeva tornasse a casa ed a bottega.
      - Sei matto? - fu la risposta di Rosa.
      - Matto, o non matto, voglio così. Svestiti ed andiamo.
      Ne nacque una disputa gravissima. Ma il Macchia aveva dato il suo consenso per il baliatico, Rosa si diceva contentissima di rimanere in casa del principe e il macellaro fu cacciato dal palazzo, dai servitori.
      Macchia ricorse a monsignor Fiscale, e monsignor Fiscale lo minacciò di metterlo in carcere, se si fosse recato ancora a disturbar sua moglie.
      Per forza o per amore a Beppe convenne di starsene zitto, mordendo la catena ch’egli stesso si era fabbricata, accordando il consenso.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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