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      Altri frattanto arrestavano il macellaro, che seguendo l’esempio del cocchiere era saltato dalla finestra nella corte.
      Inutile descrivere lo scompiglio che seguì nel palazzo. Giuseppe Macchia fu consegnato alle guardie accorse e portato in carcere, Rosa venne trasportata alla camera mortuaria della vicina chiesa dopo che il medico ebbe constatato il suo decesso.
      Nel suo interrogatorio innanzi ai giudici il macellaro confessò il delitto, ne disse il movente, senza declinare il nome del famiglio che lo aveva edotto di tutto. Ma questo fu tosto indovinato, sapendosi da tutti l’inimicizia che esisteva fra lui e il cocchiere.
      Condannato alla decapitazione, Giuseppe Macchia domandò egli stesso i conforti religiosi e subì la pena con coraggio, ma senza ostentazione di baldanza.
      LXIV.
      Una cena in tre.
      L’uxoricidio del quale ho testé discorso me ne chiama alla mente un altro, accaduto a Tolentino, alcuni anni dopo, del quale la memoria mi soccorre gli interessantissimi particolari.
      Giuseppe Valeri, merciaio ambulante, aveva condotto in moglie una appetitosa forosetta dalle forme scultorie e dal viso capriccioso e furbo, dallo sguardo incandescente, la quale prima di impalmarsi al merciaio aveva commesse parecchie scarpette che avevano aumentato il contingente dei ricoverati al brefotrofio del suo paese.
      Brutto come il peccato, secco, allampanato, con delle braccia e delle gambe lunghe, che quando s’aprivano parevano ali d’un molino a vento, più vicino ai quaranta che ai trentacinque, spilorcio, avido di denaro, taccagno, mal vestito e peggio costrutto, Domenico non poteva certo aspirare a nozze cospicue.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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