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      Geltrude passava e sorrideva, senza ostentazione di una esagerata modestia e senza alterigia. Tutti quanti le volevano bene; tutti, anche le ragazze sue coetanee, forse perché non temevano in lei una rivale, avendo ella mille volte dichiarato che non si sarebbe mai maritata, perché non voleva distaccarsi dai suoi genitori, che amava, teneramente riamata.
      - Geltrude - le diceva spesso la vecchia madre, - è tempo che tu pensi ad accasarti.
      - Non me ne parlate nemmeno, io voglio godere della mia libertà, - rispondeva prontamente la fanciulla.
      E il padre: - Pazzarella, dici così, perché non sai ancora che cosa sia il matrimonio.
      - Nessun altro stato potrebbe essere per me più felice di quello che godo. Io voglio sempre stare colla mia famiglia.
      - Si potrebbero accomodar le cose. Cerchiamo un marito che venga a star con noi.
      - No, no, non voglio padroni, non voglio chi abbia diritto di comandarmi, di impormi la sua volontà, all’infuori di voi.
      - E l’avvenire? - insisteva la vecchia - Non siamo mica eterni, noi. Un giorno o l’altro il Signore ci chiamerà a sé e tu resterai sola al mondo, in mezzo a molti pericoli.
      - Non parliamo di malinconie, mamma; lasciatemi godere le gioie dell’oggi; quando arriverà domani ci penseremo.
      E così si chiudevano sempre le discussioni sull’argomento fra Geltrude e i suoi genitori.
      Bisogna però avvertire che la leggiadra fanciulla era un po’ romanzesca: le avevano dato una educazione cittadina, sapeva ricamare, scrivere, far di conti, leggere. E leggeva assai.
      La sua occupazione più favorita, quando aveva sbrigate le sue faccenduole, era la lettura.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





Geltrude