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      Doveva essere un trasporto funebre di qualche importanza. Spinta dalla curiosità si affacciò anch’essa, per assistere dalla soglia della bottega allo sfilare del funebre corteggio.
      - È una zitella, poveretta - diceva una donnicciuola. Vedete che ha il panno bianco, sul feretro.
      - No, rispondeva un’altra.
      - E chi è, dunque?
      - Una signora morta di parto.
      - Poverina, lascia dei figliuoli?
      - No. Era il primo, dopo parecchi anni di matrimonio.
      - Guarda un po’ che disgrazia.
      Il convoglio intanto si avvicinava preceduto e seguito da una quantità di frati dei vari ordini e da una folla di persone per bene, munite di grossi ceri, che alternavano le preci e i canti funebri. E il chiacchierio degli spettatori e delle spettatrici continuava.
      Chi ne sapeva qualche cosa, lo diceva, per mostrarsi ben informato. Chi non sapeva nulla, o inventava delle fole, o chiedeva notizie ai vicini.
      - Vedete - disse d’un tratto quella che pareva meglio al giorno delle cose - il marito, segue la cassa, col padre e coi fratelli.
      - Qual è il marito? - si richiese d’ogni parte.
      - Quello là biondo, nel mezzo, tutto vestito di nero.
      - È un bel giovanotto, troverà presto da consolarsi.
      - Povero sor Enrico!
      All’udire questo nome Geltrude, colta da uno strano presentimento, uscì dal negozio e mischiandosi alla folla, volse lo sguardo dalla parte indicata dalla donnicciuola.
      Impallidì subitamente, si appoggiò alla parete, ma sarebbe indubbiamente caduta al suolo, se gli astanti non se ne fossero accorti e non l’avessero sorretta.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





Enrico Geltrude Geltrude