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      Ritornando si accorse che il marito aveva aperti gli occhi e si affrettò a nascondere l’arma sotto il guanciale. L’uomo si svegliò di fatto e le domandò:
      - Che hai, Geltrude?
      - Nulla, amor mio, rispose la perfida.
      - Perché non dormi?
      - Sono tutt’ora in preda all’ineffabile piacere che mi hai arrecato.
      - Sei un angelo!
      Per tutta replica Geltrude gli cinse un’altra volta il collo colle bianche braccia, squisitamente modellate e cacciandogli la mano dalle dita rosee e affusolate nei capelli, l’attirò a sé e lo baciò sulla bocca.
      Fu una nuova giostra, lunga, terribile, snervante, in capo alla quale il povero marito giacque completamente spossato, rifinito di forze, impossibilitato a muovere un braccio a sua difesa. Geltrude stette per lunga pezza sorridente a vederlo ed egli, l’incauto, si addormentò tranquillamente, accarezzato da quello sguardo, che credeva pieno d’amore e di riconoscenza.
      Quando si fu assicurata che il marito era immerso in un sonno duro e profondo, Geltrude balzò dal letto seminuda come era e afferrato il pugnale, con un terribile colpo glielo immerse nel petto spaccandogli il cuore.
      Il disgraziato non mandò un lamento, spalancò gli occhi e tosto li richiuse, quasi non volesse conoscere la persona che lo aveva colpito. Dopo brevi momenti era morto e irrigidito nel letto. Geltrude gli coprì il capo colle coltri, lasciandogli infisso il pugnale nella ferita; quindi si accinse a vestirsi tranquillamente, senza un’ombra di terrore o di rimorso. Il primo ostacolo alla sua felicità lo aveva rimosso la sorte, facendo morir di parto la moglie del suo amante.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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