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      Ma anche questi deliri non vennero punto. Tutto assorto nel pensiero delle conseguenze della fuga di Geltrude, Enrico fu quella mattina un pessimo amatore; gli mancava, se non la lena e la vigoria, l’entusiasmo. Geltrude ne provò una delusione crudele; ma sperò ancora.
      - Ora è mestieri che ci alziamo - disse.
      - Alzati pure.
      - E tu?
      - Io resto.
      - Ma disgraziato! noi non possiamo rimaner qui, esclamò, esterefatta da quel contegno del suo amante, Geltrude. - Bisogna andarsene, se no saremo sorpresi.
      - Ascolta Geltrude - le rispose Enrico, oramai deciso a disingannare quella donna ed a farla tornare da suo marito - le pazzie, sono sempre pazzie: si fa presto a dirle, quando la testa riscaldata non sta a segno; ma prima di commetterle, bisogna pensarci e ripensarci bene.
      - Non è più tempo: ormai è fatto.
      - Si è sempre in tempo per rimediare ad un errore, a un fallo, o ad una colpa:
      Geltrude volle sorridere ancora; ma il suo non fu neppure un sogghigno amaro, fu una contrazione spasmodica della bocca.
      Fortunatamente l’amante non la vide; gli avrebbe destato orrore. Enrico continuò:
      - Ritorna da tuo marito, raccontagli una bubbola purchessia, e ti crederà. Che cosa non credono i mariti, quando si tratta di non perdere una bella moglietta come sei tu?
      Queste blandizie, invece di lusingare Geltrude, la fecero impallidire, come una morta. La freddezza dell’amante, era una doccia su la passione che l’aveva condotta fino all’assassinio del marito. Lo spettro dell’ucciso, si levava in quell’istante innanzi ai suoi occhi, terribile e minaccioso.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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