Pagina (266/421)

   

pagina


Pagina_Precedente  Pagina_Successiva  Indice  Copertina 

      E forse se avesse avuto fra le mano il pugnale, con cui aveva nella notte trafitto il cuore del marito, avrebbe fatto altrettanto coll’amante.
      Enrico tentò di rappacificarla.
      - Via, che parolaccie son queste Geltrude? Non le ho udite mai sulle tue labbra. Perché vuoi contaminarle ora?
      Il giovane aveva messo tutta la tenerezza, tutta la dolcezza di cui era capace, in questo rimprovero: la sua voce suonò all’orecchio di Geltrude soavissima.
      LXXVI.
      Amore e ribrezzo.
      Si dileguarono in un baleno le truci memorie e i truci propositi. Si chinò sopra l’amante lo baciò, ribaciata, con tutta l’effusione dell’anima e gli mormorò all’orecchio:
      - Se sapessi quanto t’amo.
      - Lo so, ti credo e non ti amo meno.
      - Eppure mi discacci.
      - Non ti discaccio punto. Ti impedisco di commettere una pazzia, che sarebbe la tua rovina.
      - Fuggiamo, Enrico. Qui non posso più stare, e andarmene non voglio senza di te.
      - E dàlli con questa ubbia.
      - Ubbia la chiami?
      - Sì, se ubbia significa ancora una cosa irrealizzabile.
      - Ma non capisci che non posso ritornare alla casa di mio marito, che ho abbandonata per sempre, portando via tutto, tutto; la roba mia e la sua?... Vedi in quelle valigie sono tutti gli averi di mio marito. Il ricavo della vendita del negozio, i denari, le gioie, i valori.
      Enrico a, quella rivelazione si rizzò a sedere sul letto, in preda ad un orrore, che non tentava neppure di dissimulare.
      - Ma questa è un’infamia! Tu vuoi farmi passare per tuo complice, vuoi disonorarmi! Prima ti pregavo di ritornare da tuo marito, ora te lo impongo.


Pagina_Precedente  Pagina_Successiva  Indice  Copertina 

   

Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





Geltrude Geltrude Enrico