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      - Me lo imponi?
      - Certamente. Come ti impongo di riportargli quella roba. Mi par di sentirmi bruciare le mani, soltanto per aver toccate quelle valigie. Se si potesse sapere, se si potesse credere...
      - Non si saprà nulla, non si crederà nulla, accertatene.
      - Io potrei bene sfidare il giusto sdegno e l’ira di tuo marito, per avergli portata via la moglie; ma morrei di vergogna se avesse ragione di sospettare che...
      - Non temere egli non sospetterà nulla.
      - Dovrà pur accorgersi...
      - Non si accorgerà di nulla.
      - Geltrude spiegati. Quali arcani mi nascondi?
      - Nessuno arcano. Mio marito era l’ostacolo che ci separava; tu mi hai detto che se fosse stato tolto, mi avresti sposata, e saremmo stati liberamente uniti per tutta la vita.
      - Ebbene?
      - Ebbene, questo ostacolo non esiste più.
      - Come?
      - È soppresso.
      - Finiscila colle ambiguità, in nome di Dio, non istraziarmi. Parla.
      - Vuoi saper tutto?
      - Tutto.
      - L’ho ucciso questa notte, sul far del giorno, un quarto d’ora prima di giunger qui, con questa mano stessa che lui ha tante e tante volte baciate, l’ho ucciso per te, per amor tuo, l’ho ucciso per diventar tua moglie.
      - Orribile! Orribile! - esclamo Enrico comprimendosi con ambo le mani la testa, per contenere il tumulto de’ pensieri. - E questo mostro, questa assassina, mi ha prodigate le sue carezze, colle mani ancor lorde di sangue!
      Enrico accompagnò queste parole con un atto di disgusto, di nausea, di ribrezzo tale, che Geltrude ne fu colpita nell’imo del cuore. Comprese che tutto era finito per lei, e, senza più, raccolte un’altra volta le due valigie, si precipitò fuori della porta, senza profferire una parola, e senza che l’amante tentasse di trattenerla.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





Dio Enrico Geltrude