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      Non appena la vide uscita, Enrico balzò dal letto, corse a chiudere la porta, e la sbarrò guardandosi attorno, pauroso di rivederla ancora.
      LXXVII.
      La confessione e la punizione.
      Uscendo dalla casa dell’amante, Geltrude incontrò una vettura, chiamato il cocchiere, si fece caricar su le due valigie e gli ordinò di condurla da Monsignor Fiscale. Era estremamente pallida, aveva i capelli irti sulla fronte, gli occhi infossati, le labbra tremanti: aveva la febbre. Ma la fresca aura del mattino la calmò e giunse innanzi a monsignore in condizioni di poter essere ricevuta senza allarmare gli usceri e le guardie. Il severo magistrato non appena la vide, sempre bella, anzi resa forse più attraente dal pallore del volto e dalla fisionomia accasciata, sorse, e le mosse cortesemente incontro, e la invitò a sedere nella miglior poltrona del suo gabinetto: quindi passatole a lato un’altra scranna, come avrebbe potuto fare con una signora di qualità, le domandò:
      - Che posso fare per voi? Assicuratevi anticipatamente di tutta la mia deferenza.
      Geltrude mandò un profondo sospiro.
      - Qualche segreto affanno, certamente vi conduce - Apritevi liberamente con me. Nell’esercizio delle mie funzioni io sono una tomba vivente e queste pareti non hanno né occhi, né orecchie continuò il fiscale.
      - Ho una terribile rivelazione a farle, monsignore, mormorò Geltrude fissandolo negli occhi.
      - V’ascolto e sarò felice di potervi giovare.
      - Per me non v’ha lenimento possibile, malgrado la vostra buona volontà.
      - Siete sotto un’impressione sinistra, tranquillizzatevi: c’è rimedio per tutto, fuorché per la morte.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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