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      Ma Luigi Finocchi aveva la testa in fiamme, una vampa sanguigna gli saliva agli occhi e non scorgeva che un immane quadro rosso innanzi a sé.
      Geltrude lesse la lettera, tranquillamente, serenamente, come se si trattasse di cose che non la riguardassero e quando ebbe finito pronunziò una sola parola, ma con tale accento di supremo disprezzo, che scosse tutte le fibre del suo sposo:
      - Vigliacco!
      - Dunque è vero? - chiese Finocchi con una inflessione di voce che pareva un rantolo.
      - Sì - rispose con accento fermo, pieno di muta disperazione Geltrude.
      - Ebbene? - domandolle ansante il marito.
      - Vi ho ingannato, sono indegna di voi, cacciatemi; siete nel vostro diritto.
      - Perché ingannarmi? - disse con accento straziante Luigi.
      - Per salvare il mio onore; porto nelle viscere il frutto della mia colpa, se è colpa per una fanciulla inconsapevole l’essersi lasciata sedurre da un vile.
      Quella confessione schietta, piena di rammarico e di rassegnazione, colpì profondamente il disgraziato e fu come un refrigerio per lui. Riprese la calma, e considerò la situazione freddamente.
      Era stato ingannato; ma lo scopo se non giustificava, scusava l’inganno. Quella fanciulla era caduta sotto le arti di un malfattore: era una vittima più da compiangersi che da condannarsi. Poteva egli d’altronde supporre che tanto tesoro di leggiadria, fosse creato per lui, rozzo, villano, ineducato? Aveva desiderato che la distanza che lo separava da Geltrude fosse dimezzata: ecco il fatto che lo assecondava. Se la fanciulla non amava il suo seduttore, egli l’avrebbe perdonata, le avrebbe conservato tutto il suo amore, tutta la sua adorazione.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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