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      Perché non ce ne dovrebbero essere, come in Ispagna, per applicarsi la disciplina? Il giorno seguente si ripetè l’esperimento, ma con esito eguale e dopo mezz’ora dovette essere distaccato, non potendosi prolungare il supplizio oltre questo spazio di tempo, la seconda volta. Così se la scappò per mancanza di prove.
      Ma siccome tutti non hanno la sessa robustezza di reni e la stessa disinvoltura, coloro che subiscono codesta tortura penano molto più che non si sappia immaginare. Dopo pochi minuti sono inondati di sudore e hanno frequenti svenimenti. Si richiamano in sensi soffondendo loro il viso con un po’ d’acqua della Regina d’Ungheria, avvertendoli il bargello di non far movimenti, i quali facendo oscillare la corda, produrrebbe loro più acuti dolori.
      Benché questa tortura sia molto tormentosa si usa tutta l’umanità possibile verso coloro che devono sopportarla. La camera in cui la subiscono è ben chiusa, i giudici, i medici e i tormentatori, rimangono silenziosi e non fanno il più piccolo movimento. Si compiange il disgraziato e per tema che il movimento dell’aria aumenti le sue pene si prendono tutte le precauzioni; onde il paziente goda della calma più completa.
      La tortura chiamata la veglia - continua il bravo domenicano - prende questo nome perché si suppone che colui cui è applicata per la durata di dodici ore complete, non possa dormire, a cagione degli acuti e continui dolori che soffre. Giudicatene.
      L’imputato viene spogliato tutto nudo e rasato, gli si attaccano le braccia dietro il dorso, come abbiamo veduto per la corda.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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