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      Lo si fa cadere per terra e gli si legano i piedi ad un lungo e grosso bastone, distaccati un dall’altro quanto più è possibile. Quindi tre o quattro uomini lo sollevano all’altezza di quattro piedi; mentre essi lo tengono disteso, si ferma la corda che gli lega le braccia ad un gancio, infisso nel muro a circa sei piedi d’altezza, e si mette sotto le natiche del paziente un tronco di 4 piedi d’altezza, in mezzo al quale sorge un cavicchio alto quattro o cinque pollici, largo da nove o dieci linee, sul quale si appoggia l’osso sacro del paziente: è sovr’esso che deve riposarsi senza muoversi; è sovr’esso che deve gravare il suo corpo per tutto il tempo che dura la tortura. S’egli scivola giù da questo perno, sente subito i dolori della corda che gli disloca le spalle, perché non ha sostegno: lo si rimette tosto su questo doloroso cavicchio, ove deve tenersi in equilibrio il corpo, con sofferenza indescrivibile. Si dice che le prime tre o quattro ore sono le più difficili a sopportarsi, perché i sensi trovandosi ancora nella piena vigorezza, sono più suscettibili del dolore, di quanto si trovano affievoliti, prostrati, ottusi, per adoperare un termine tecnico. Di consueto in queste quattro prime ore il paziente si scarica e questo gli serve di sollievo; se non lo fa c’è da temere per la sua vita.
      Qualunque cosa gli accada in quello stato di dolore non gli si porge altro sollievo, che alcune goccie d’acqua della regina d’Ungheria, soffiatagli sul volto, dopo averlo avvertito, affinché non faccia de’ bruschi movimenti per la sorpresa, i quali aumenterebbero le sue pene.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





Ungheria