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      Passiamo a Napoli, quarant’anni più tardi. Negli Avvisi di Roma del febbraio 1640 si legge in data di Napoli che era già posta la mannara in pubblico per doverglisi tagliare la testa. Ma questa mannara era una ghigliottina? Quantunque le espressioni degli Avvisi accennino una montatura, vi potrebbe essere qualche dubbio in proposito, specialmente quando si legge nei giornali dello Zazzera (6 luglio 1618): «Non ritrovandosi boia, dicono, che facesse fare l’offizio ad un chiacchieraro (macellaro) con la mannaia della carne.»
      Ma ogni dubbio è tolto dal racconto sincrono di un altro supplizio celebre, quello del principe di Sanza nel 13 gennaio 1640. «È giunto alla fine del luogo (Piazza del Mercato) salì il doloroso palco. E prostratosi ai piedi del confessore a dir gli scrupoli occorsigli di nuovo e ricevuta l’assoluzione amplissima, non mancando quei Padri allora far l’ultimo sforzo, l’obbediente principe fatta una bocca a riso, prontamente pose il collo al ceppo; ma ritirollo tosto: credesi perché gli facesse nausea quel ceppo troppo lordo di sangue, perché sguarnito era di lutto e d’ogni altra cosa il ceppo ed il palco. Al che uno dei Padri rimediò subito con porre sopra il legno un fazzoletto. E rincorato il Principe con maggior animo e più ridente ripose di nuovo la testa sul ceppo. E nello stesso punto tagliato dal manigoldo il laccio, precipitò la mannaia sul collo e divise dal busto il capo, dalla cui bocca furo l’ultime parole: perdono, misericordia.
      Ecco dunque fino dalla metà del secolo decimosettimo, il supplizio con la mannaia quale lo trovò al principio del secolo successivo il padre Labat, che nel suo viaggio in Italia descrive la mannaia come una macchina veramente perfezionata.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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