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      Ma la felicità di quaggiú, per essere gustata, ha bisogno di confronti e di contrasti; e chi di sua vita non ha mai versato lagrime di sangue, non potrà dire d'essere stato qualche volta felice.
      Io, per me, se, in un bel mattino d'autunno, dal cucuzzolo d'un monte del mio caro lago, m'avvien di mirare sorgere grado a grado il sole dall'opposta catena, e indorarsi all'intorno la vasta contrada, e allegrarsi del suo divino sorriso il vasto piano delle acque, e ascolto elevarsi il misterioso concento di mille armonie all'intorno, quasi un saluto di gioia, provo nell'anima non peranco inaridita un palpito sempre nuovo e spontaneo, che mi parla di felicità e di speranza, di riconoscenza e di amore.
      Quella gente là dell'osteria, invece cercava la propria felicità nel fondo d'un bicchiere. E perché no?
      Quando io vedo un ubbriaco povero, penso alla infelicità di quello sventurato, che non seppe trovar altro conforto che nel vino, e che, forse per dimenticare la propria miseria, ha perduto bevendo l'uso della memoria, della favella e delle gambe.
     
      A destra dell'uscio d'ingresso cinque popolani stretti in circolo intorno ad un confratello cantavano in coro. Il maestro dilettante - lo Spadon dei dodici - batteva il tempo con una sicurezza ed una prosopopea degne addirittura d'un Paganini o d'uno Strauss, e lanciava fiere occhiate a destra e a sinistra sui meno intonati. La patetica melodia: un coro della Muta di Portici - dei portici, secondo lui - fluiva raucamente da quelle rozze gole, ma con mirabile accordo, tantoché se il maestro fosse stato presente non avrebbe udito falsare una nota sola della sua geniale ispirazione.


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La scapigliatura e il 6 febbraio
di Cletto Arrighi
pagine 243

   





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