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      Ora in un luogo ora in un altro piantavo i miei penati, in casa d'un contadino, dove pagavo dozzina, e vivevo colla famiglia.
      Vestivo quasi come loro - come vestono i meno poveri - cioé camiciola (jacquette) di velluto bleu, calzoni idem; avevo un cavallo sferrato come tutti in campagna di Roma, sella come i vaccari, vale a dire cogli arcioni alti un palmo davanti e di dietro, a uso degli uomini d'arme del Cinquecento. Due bisaccie, un cappotto castagno ricamato in seta verde; un pugnolo - specie di lancia ovvero una mazzarella, bastone di corniolo lungo due metri con una boccia dello stesso legno in punta - e questi ordigni servono a difendersi dal bestiame che vive alla libera in campagna di Roma - avevo a armacollo un buono schioppo, ed il coltello nella tasca diritta dei calzoni - sicuro, anche il coltello - paese che vai usanza che trovi.
      Tale, né piú né meno, era il mio uniforme - non il meno pittoresco né il meno comodo di quanti ne ho portati.
      Ora devo aggiungere una circostanza, e benché un pochetto me ne vergogni, la sincerità è la mia virtú prediletta, e perciò la dico.
      Siccome non avevo modo di tenere un servitore - d'altronde poi l'indipendenza è stata sempre la mia passione - cosí mi servivo del proverbio: chi fa da sé fa per tre. E il mio cavallo, al quale volevo bene come a un fratello - già cavalli e cani sono i veri galantuomini - me lo custodivo da me, e sia in viaggio come a soggiorno, le mie bianche mani gli davano fieno od erba - biada non s'usa - lo strigliavano, lo ripulivano, e persino - ho sempre amata la pulizia - dovevano abbassarsi all'umile granata, perché la stalla e la lettiera non avessero imbratti. Chi vuole il fine voglia i mezzi - e non capisco smorfie.


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Racconti leggende e ricordi della vita italiana
(1856-1857)
di Massimo d'Azeglio
pagine 890

   





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