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      Doversi imprimere nei cuori dei figli e dei nepoti, rimanervi come un nascosto tesoro di famiglia, e non gettarli nella gran corrente della pubblicità ad estranei e indifferenti? Io sento che è in me questo istinto, eppure mi risolvo a disubbidirlo. Mi vince il desiderio di disegnare i cari lineamenti di quella nobile figura che ebbe grazia, candore, bellezza muliebre, ed insieme (come vedremo) fortezza virile. Da venticinque anni essa riposa accanto a mio padre nella povera chiesa dei Cappuccini di Genova; oramai essa appartiene all'età passata; non potrà questa circostanza rendere giusto e ragionevole il modificare la severità di certi principî? Potrebbe egli esser vero, esser bene, che mai non dovessero venire offerti all'imitazione de' posteri i nobili modelli della virtú femminile? Chi, se non la madre, ebbe da Dio l'incarico d'imprimere i primi e piú indelebili lineamenti del carattere dell'uomo? E quella che tanto mirabilmente seppe quest'arte creatrice delle forti generazioni, quindi delle grandi epoche, dovrebbe rimanere ignorata, mentre primo bisogno d'Italia è appunto trovare uomini e chi sappia educarli e renderne forte e generoso il carattere?
      E di piú, ho il diritto di spogliare chi nasce da me, della piú preziosa delle eredità, quella di nobili o virtuosi esempi?
      Queste riflessioni mi decidono, e tiro innanzi. Ma prima, due parole per dipingere mio padre. Cito il manoscritto: "Giovane di bellissirno aspetto e di cortesi maniere, pieno di talenti, di vivacità (sostenuta però), colto non poco, bravo nella musica, nel canto, ecc. ecc.". Cosí mia madre. Mi sia permesso di compiere il ritratto ed aggiungere ch'egli fu tenuto uno dei migliori soldati del nostro esercito, uomo d'inesorabile severità di principî e al tempo stesso d'indicibile bontà di cuore, che avrebbe dato il suo sangue per risparmiare un dolore alla famiglia, come l'avrebbe lasciata sagrificare tutta sotto i suoi occhi, piuttosto che tradire il dovere o l'onore.


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Racconti leggende e ricordi della vita italiana
(1856-1857)
di Massimo d'Azeglio
pagine 890

   





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