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      Avrei potuto informarmene dai suoi coetanei e compagni ancora vivi; ma per isventatezza giovanile non lo feci. Che cosa non pagherei ora per potere evocare ed interrogare i loro spiriti!
      Ciò serva d'avviso a chi è a tempo di risparmiarsi, se vuole, siffatti inutili rammarichi.
      D'un aneddoto mi ricordo, narrato da uno degli amici di casa.
      L'esercito nostro quando incominciò la guerra della rivoluzione, era in pace sin dall'epoca della guerra della successione di Polonia. Per i soldati, quarantasei o quarantasette anni di pace significano mancanza assoluta della istruzione pratica di campagna, cominciando dal generale sino all'ultimo tamburino. Oltre a ciò, l'ordinamento provinciale, secondo il quale il soldato non passava che poco tempo sotto le bandiere, era tale da non correggere punto questo difetto d'esperienza. Uno de' doveri, come una delle difficoltà de' superiori, era dunque l'avvezzare i soldati a quel severo, minuto e continuo sacrificio di sé che si chiama disciplina; senza la quale si può avere una moltitudine d'uomini valorosi, ma non s'ha, non dico un esercito, ma neppure un reggimento.
      Mio padre, nella Val d'Aosta, ebbe un giorno da condurre il suo battaglione a traverso un piano assai lungo, in faccia al nemico, e sotto una batteria che percuoteva in pieno quel tratto di terreno; ottima occasione d'agguerrire i suoi provinciali. Egli era di que' tali che usano fare i bravi sulla pelle propria e non sull'altrui. Avrebbe potuto, per smargiassata, formarsi in colonna per plotoni; il qual ordine, presentando il fianco al nemico con quindici o venti file di profondità, accresceva il pericolo del soldato senz'accrescere il suo proprio. Egli invece, comandato per fianco dritto, si pose su due file, tamburi in testa, si mosse, e postosi innanzi a tutti, mantenne la sua gente a un passo lentissimo.


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Racconti leggende e ricordi della vita italiana
(1856-1857)
di Massimo d'Azeglio
pagine 890

   





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