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      E perché tante cadute, perché tante rovine? Forse perché non s'era saputa trovare la forma che rende un governo civile e potente? No! Ma perché non s'era saputo formare cuori, coscienze, caratteri; perché non s'erano, in una parola, creati uomini.
      Dove invece se ne trovarono, la rovina non accadde cosí rapida.
      Il Piemonte, la Dio grazia, cadde due volte soltanto e due volte risorse. Esso aveva sostenuti quattro anni di guerra contro i migliori soldati d'Europa e solo ceduto il campo in fine a quel guerriero, che impiegò per andare poi a Vienna, a Berlino, a Madrid, meno mesi o settimane talvolta che non aveva messi anni, o lui, o i generali repubblicani per entrare in Torino. Non era questo cedere vilmente.
      Bisogna però concedere che i due ultimi re non ebbero la risolutezza né i talenti di molti altri della loro casa.
      Sul principiare del secolo, l'indomabile Vittorio Amedeo II, spogliato di tutto, correva il Piemonte non piú suo con una banda di cavalli. Senza un soldo, senza altro bene che la sua spada e le sue pistole, spezzava il suo collare dell'ordine per donarlo a poveri contadini svaligiati e cacciati fuori dalle loro capanne incendiate. Ma le sue ossa ormai dormivano nelle tombe di Superga; e su un trono destinato a rovinare, la Provvidenza avea collocato Carlo Emanuele e Vittorio Emanuele, onesti, come in genere i principi di quella Casa, ma incapaci di forti risoluzioni come di rapide ed audaci esecuzioni.
      Essi, al paro di molti altri principi loro contemporanei, furon fra quelli, che abbiamo dianzi accennato, distruttori del proprio sistema. La monarchia di Savoia era battuta dalle forze, e piú dalle perfidie del governo francese, scavata al tempo stesso dai suoi fondamenti dal partito repubblicano piemontese, che se non era numeroso, suppliva coll'attività e coll'audacia; e quasi non bastasse, i suoi principi ed i suoi naturali sostegni le toglieano riputazione e ne affrettavano la caduta, per quella cieca ostinazione a volere l'impossibile, che abbrevia l'agonia dei sistemi destinati a perire.


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Racconti leggende e ricordi della vita italiana
(1856-1857)
di Massimo d'Azeglio
pagine 890

   





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