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      L'idea della nazione, destinata ora, se le apparenze non ingannano, a mutar faccia al mondo civile, o per lo meno a modificarla d'assai, è un portato del nostro secolo. Essa è una logica deduzione all'idea cristiana, che, accordando ad ogni individuo diritti naturali in quanto egli è uomo, dovea per propria tendenza condurre a riconoscere i medesimi diritti alle nazioni, che sono la piú giusta ed ordinata forma delle associazioni umane; diritti anteriori e la meno incerta fra le basi del dritto politico.
      Questo nuovo aspetto preso dalla società, ed affermato ora da tutti, è un progresso, un passo di piú. Ma è progresso recente, e sarebbe ingiusto il pretendere che i nostri padri informassero da esso i loro pensieri. Sono invece da lodare e da tenere quali precursori dell'età nostra quelli che in quel tempo già sentivano in genere l'obbrobrio ed il danno del dominio straniero. E tale era la passione che struggeva mio padre, quando, ridotto a vita inoperosa ed inerte, vedeva la sua città, le istituzioni, l'indipendenza del Piemonte abbattute a' piedi d'un potere, il quale sin d'allora minacciava prodigi di violenza, che la realtà spinse dappoi sino all'inverosimile.
      Se mio padre, dunque, pensava allora al Piemonte e non all'Italia (ed ogni suo Stato, come vedemmo, pensò, o almeno credette pensare a sé quando si trattò d'unirsi per la difesa comune) l'errore era del tempo e non suo. Ma ben fu sua la lode d'aver combattuto con quanti mezzi aveva in mano contro lo straniero; fu sua la lode di non mai essersi piegato a servirlo; fu sua la lode d'aver mantenuto per tutto il corso della vita quella fede politica e religiosa che la coscienza gli presentava per vera, senza mai in nessun caso lasciarsi né da timori né da speranze torcere dal retto sentiero; fu sua la lode di morire senza aver tentennato mai, neppure un attimo, ove conoscesse un dovere.


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Racconti leggende e ricordi della vita italiana
(1856-1857)
di Massimo d'Azeglio
pagine 890

   





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