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      Si può credere se a mio padre, non certo le miserie che si vedeva d'intorno, ma la gran rovina della piú vasta e piú invincibile delle tirannie, non gli scuotesse tutte le fibre del cuore di una gioia infinita.
      Ma si presentava una rara occasione di mettere in noi giovanetti idee vere e principî virtuosi, né era uomo da trascurarla.
      Già in circostanze ordinarie, mio fratello Enrico ed io - i due ultimi - eravamo condotti dal prete a visitare poveri ammalati, nelle soffitte ch'essi in Torino sogliono abitare. (Quest'uso è ottimo. Per diversi motivi è bene che i ricchi abbian sottocchio i poveri, ed i poveri conoscano i ricchi). A questi disgraziati si portavano aiuti e conforto.
      Chi ha giovanetti da educare, imiti questo sistema di mio padre. Piú presto s'impara che non tutti trovano il pranzo in tavola a suon di campanello, e meglio è.
      Ora poi in questa grande calamità, in questo profluvio di nuove miserie, egli ci mandava all'ospedal San Giovanni ed altri ospedali militari, senza tante smorfie di paure per tifi e febbri nosocomiali che v'erano; ed ancora rammento il doloroso spettacolo di quei poveri feriti gettati su una paglia trita e fetente, ravvolti in sudici cenci, ai quali portavamo que' pochi conforti che si poteva in tanto numero di disgraziati. Cosí nostro padre c'insegnava, che in un uomo ferito, abbattuto, miserabile, non c'è piú né straniero, né francese, né tedesco, né chinese; c'è un fratello, o meglio, un uomo (questo titolo di fratello mi pare ora moneta calante) che bisogna aiutare e soccorrere per amor di Cristo, se siete cristiano; se no, per l'amor di Dio; e se, siete ateo, per amor vostro in vostra malora!
      Grazie a Dio quest'ammaestramento non mi uscí mai piú dal cuore; e quand'ebbi poi in appresso in mano nemici prigionieri, feriti e malcondotti, credo non ebbero a lagnarsi dei fatti miei.


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Racconti leggende e ricordi della vita italiana
(1856-1857)
di Massimo d'Azeglio
pagine 890

   





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