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      Bisogna sapere che in villa, c'era una cappella ove ogni sera si diceva il rosario in comune: un rosario tanto rinfoderato di oremus, di litanie e d'altre preghiere, che non se ne vedeva mai la fine; ed a me era un vero supplizio.
      Onde la prima idea mi corse al rosario, e dissi con voce flebile:
      Neppure al rosario?
      Nossignore, già le ho detto, che nessun atto del culto le è piú permesso.
      Io pensai: tutto il male non vien per nuocere; e credo che benedicessi davvero questa volta, suadente diabolo, quei santissimi pugni dati al prete.
      Dall'indomani non ci furono piú né messe, né orazioni, né novene, né moccoli; ed all'ora del rosario me n'andavo sul prato a caccia de' grilli. Mi pareva proprio una vita riposata.
      Ma l'arcivescovo di Torino mi rovinò.
      Dopo alcuni giorni, l'arciprete mi chiama in sagrestia, cava una lettera, e me ne dà lettura. Era un gran crocione fatto dal superiore ordinario sul mio delitto, coll'assoluzione d'ogni scomunica o censura incorsa, a condizione ecc., a patto ecc. ecc., purché ecc. ecc. ecc.
      Ed io, prendendo l'aria piú consolata che mi fu possibile, venni riammesso nel poco ridente grembo di quel rosario vespertino, alla maggior gloria, quiete e soddisfazione dei grilli del prato.
      Fin d'allora però ebbi il dubbio, mutato dipoi, com'è naturale, in certezza, che tutta quella scomunica e la lettera del vescovo, erano pura commedia destinata a produrre una profonda impressione sull'animo mio, e levarmi la voglia di picchiar mai piú preti, campassi cent'anni.
      Fu insomma una pia frode, sorella carnale del pie credendum: e tutte le frodi, pie o non pie che siano, hanno il gran difetto d'esser scopribili, ed in effetto scoperte sempre; ed allora si peggiora invece di migliorare i fatti propri.


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Racconti leggende e ricordi della vita italiana
(1856-1857)
di Massimo d'Azeglio
pagine 890

   





Torino