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      Non voglio dire con ciò che non lo seguissi punto: esso in sostanza era omogeneo alla mia natura, era una nuova applicazione d'una critica teoria già udita ed inculcatami nell'infanzia da mio padre, ed avevo, grazie a Dio, abbastanza buon senso per comprenderne l'immensa portata.
      Mi venivo dunque esercitando in piccole cose; verbigrazia, rinunziare ad un divertimento, durare in una fatica mezz'ora di piú ancorché stanco, alzarmi un'ora prima, differire di bere o mangiare ancorché affamato ed assetato e via via; e sempre senza che lo sapesse altri che io. Non rida, lettore, di inezie che paiono fanciullaggini: pensi che se non avessi in animo, e non m'ingegnassi di scrivere un libro sano ed utile alla gioventú, un libro minutamente pratico, lascerei di durar questa fatica; e rifletta altresí che dall'analisi in ogni cosa si giunge alla sintesi: che per diventare buon schermidore bisogna tirare al muro per ore e ore: per diventar ballerino, bisogna fare battements a milioni, e che per farsi un'anima di ferro come era mio padre, e come vorrei vedere gli Italiani, bisogna temprarsi, ed avvezzarsi a soffrire e sagrificare il poco, per giungere in seguito a sacrificare l'assai, - e allora uno può lusingarsi d'appartenere a quella razza d'uomini destinata a fondare, come a salvare, come a restaurare le nazioni. Prima no.
      Io che volli invece far la cosa tutta d'un salto, e cominciare da sagrificii grandi; io che dalla vita attiva ed elastica passai alla sedentaria e casalinga; dalla vita all'aria aperta alla vita di camera: ed in una parola da quella vita che, tolti gli abusi, fa ingrassare i balordi, a quell'altra che fa dimagrare gli uomini volonterosi di far bene (aggiunga che dormivo in mezzo ai colori, gli oli, le vernici: odori da far venire le convulsioni ad un mulo); il fatto si è che, dopo sei mesi di questa lavorata furibondo, m'ammalai.


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Racconti leggende e ricordi della vita italiana
(1856-1857)
di Massimo d'Azeglio
pagine 890

   





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