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      Fatto sta che, ragione o non ragione che avesse, nessuno lo vedeva, non trattava nessuno, neppure i suoi scolari, che si riducevano a due, un giovane romano ed io. Il detto giovane era figlio del suo padrone di casa, lo scultore cavalier Pacetti, ammesso, credo io, soltanto per la quasi impossibilità di dirgli di no. Io ero stato ammesso per motivi analoghi, ma credo che ci vedesse con quel piacere con che gli occhi vedono il fumo della legna verde.
      Tutto il vantaggio che si ricavava alla sua scuola, ecco qual era. Il quartiere si componeva d'un'anticamera con finestroni da studio, nella quale rimanevano esposti i suoi quadri finiti, finché fossero mandati al loro destino. Un altro studio nella camera vicina, dove lavorava lui, e dal quale si passava in altre camere ignote ai mortali. Il mastio di Castello è abbastanza ben guardato: ma non ha che far nulla collo studio dove dipingeva il maestro. Era sempre chiuso a catenaccio, e non s'apriva se non ogni tanti giorni, e mai regolarmente. Veniva allora fuori il buon Martino con una faccia di mela cotta, e due occhi bianchi e tondi come due colonnati. Noi si stava copiando qualche brano de' suoi quadri. Egli si piantava dietro la nostra sedia, guardava senza fiatare per cinque minuti, e noi che se ne sapeva poco, che ignoravamo metodi, regole, furberie dell'arte - nessuno ce l'insegnava - s'aspettava come voce d'oracolo qualche buon precetto.
      Un poco turo
      : ecco la gran sentenza; e passava all'altro scolare. Di nuovo cinque minuti di contemplazione e poi: "Un poco pensante"; e via per i fatti suoi: che essi e non noi erano cagione che vedesse ogni tanto i nostri pasticci.
      Egli intendeva le relazioni da maestro a scolare all'incirca come (salvo l'amorevolezza) l'intendevano gli antichi pittori.


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Racconti leggende e ricordi della vita italiana
(1856-1857)
di Massimo d'Azeglio
pagine 890

   





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