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      Qual avvenire mi prometteva un posto nella diplomazia, nell'amministrazione o nell'esercito? L'avvenire di dovere saper sempre dove va a messa o da chi si confessa il ministro, il generale, o la dama d'onore; per trovarsi a dar loro l'acqua santa quand'entrano in chiesa, e per mettersi in buona vista del Padre spirituale. Cosí facendo, andar avanti nella carriera di buon trotto; e cosí non facendo, esser messo a sedere, e dopo trent'anni passare dal cancello dell'impiegato alla panca del giubilato al caffè Fiorio.
      Io poi, professando allora, come lei sa, un odio profondo contro l'aristocrazia, e vivendo in quel grande equivoco de' nostri tempi, essere cioè la democrazia non l'ammissione al diritto comune degli antichi esclusi, ma bensí una rappresaglia di questi contro gli antichi privilegiati; non vedendo d'altronde, né potendo vedere altro che il presente (qual mente umana poteva, nel '20, prevedere il '48?), com'era possibile ch'io diventassi un umile neofito di quell'insulso, fallace ed ipocrita sistema? Com'era possibile che m'attenessi alla carriera piú utile, contro ogni mia inclinazione?
      La mia demagogite non era certo piú allo stadio flogistico di prima. Non mi tenevo piú obbligato a vendicare le violenze degli antichi baroni, e le impertinenze della nobiltà di corte, coll'andare per l'osterie e peggio, in compagnia dei Barabba, vestito a bardassO, e procurando, per quanto era in me, di portare all'apoteosi ciò che v'è d'ignobile e di maculato nella società. Questo sistema, che è frutto dell'equivoco accennato dianzi, non era piú il mio, o, per dir meglio, s'era elevato, dopo incominciata la mia vita nuova, in un ambiente piú sano ad applicazioni piú ragionevoli. Mi divertiva però l'idea di far arrotare un tantino molti parenti e persone della mia classe che m'avevano seccato in piú modi, rendendoli zii o cugini, o amici almeno, d'un nobil uomo che si faceva pagare le sue pennellate.


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Racconti leggende e ricordi della vita italiana
(1856-1857)
di Massimo d'Azeglio
pagine 890

   





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