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      Vi fui accolto come un figliuolo, e tosto mi diedi a sistemare le cose mie onde cominciare a lavorare.
      La prima cosa da sistemare era di non fare il passo piú lungo della gamba. Il mio avere non arrivava a venticinque scudi romani. Circa quindici se ne andavano per la dozzina, casa, tavola, bucato, ecc. La pigione d'uno studio ne inghiottiva altri sei; ne rimanevano due o tre per colori, modelli, vestiario, calzatura, teatro, divertimenti e minuti piaceri.
      Penetrato dello stato reale delle mie finanze, feci quel che dovrebbe fare il ministro delle nostre, tagliai nel vivo. È vero che io non avevo, come lui, da fare i conti con tanti che, fatta l'Italia, se la voglion mangiare; io non avevo a far conti se non con me solo, e col mio amor proprio.
      La prima volta ero venuto in Roma con mio padre Ministro. Avevo una bella ed elegante uniforme, andavo a cavallo ed in carrozza, e vivevo alla pari con tutti i signori e principi romani, con ministri ed ambasciatori, ecc. Ora coi miei tre scudi di vestiario, calzatura, teatro, divertimenti, minuti piaceri ecc., c'era poco da far il principe.
      Bisogna mutar mondo, pensai. Cœlum novum et terram novam. Bisogna scendere tanti scalini della scala sociale finché mi trovi a livello, di quel mondo nel quale i miei suddetti scudi rappresentino un appannaggio non solo conveniente, ma invidiabile.
      A questo punto, sfodero una superbia da lucifero; e senza ricordarmi che esiste la modestia, dico alla nuova generazione, cercate d'imitarmi.
      Ognuno deve saper vivere del suo; e chi fa debiti vive piú o meno dell'altrui. Io ebbi, ed ho, debbo dirlo per temperamento l'orrore dei debiti. Quindi, avendo poco, invece di farmene imprestare, imparai a vivere con quel che avevo.


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Racconti leggende e ricordi della vita italiana
(1856-1857)
di Massimo d'Azeglio
pagine 890

   





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