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      Come può credere, non è ch'io non veda quel che vi fu di singolare e di ammirabile nelle virtú e nelle doti degli individui ed anche nel sentire alto e generoso talvolta del popolo intero; non è ch'io disprezzi la fortezza di Regolo, la severità di Catone, la generosità di Curio Dentato, il gran sacrificio de' Fabi, e via discorrendo. Fra tutti gli Stati dell'antichità, è anzi Roma quello che ho in maggiore stima, fino all'epoca de' Gracchi, intendiamoci! Io ammiro que' tempi durante i quali dominò la legge; durante i quali le piú bollenti passioni agitate dai piú vitali interessi non cercavano altr'armi né altre vittorie che un voto ne' Comizî; quando un'intera plebe logorata dalle guerre, coperta di cicatrici, e jugulata ciò nonostante dalle usure de' grandi (Roma, ognuno lo sa, fu il paradiso degli usurai) invece di gridare abbasso i ricchi, o la propriété c'est le vol, invece di prendere a sassate, o peggio, i creditori, si limitava a uscire dalla città, e domandare i Tribuni.
      A un popolo simile mi levo il cappello. Ma quel popolo invece che ha per articolo di fede di essere lui il padrone della libertà, dell'avere e della vita dell'universo; al quale da bambino il maestro insegna tu regere imperio populos, Romane, memento; e che fatto grande considera quindi come suo diritto il ridurre allo stato di schiavitú tutte le nazioni, usando o violenza, od arte, o frode, secondo gli vien bene; e che in questa secolare prepotenza vagheggia una missione divina, il destino di una gloria superiore a quella d'ogni altro popolo; sí che la piú sfrenata ed implacabile cupidità, la dolcezza di vivere ozioso di limosine regolari si viene a presentar al mondo come l'adempimento della volontà del cielo; questo popolo e la sua lunga esistenza, io li considero come il piú colossale, forse, di tutti i fatti storici; ma la cieca adorazione che gli vien tributata da moltissimi, pare a me la piú colossale delle corbellature che abbia mai procurate a se stessa l'umanità.


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Racconti leggende e ricordi della vita italiana
(1856-1857)
di Massimo d'Azeglio
pagine 890

   





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