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      Pur troppo come nel mondo materiale vi sono le vipere, che nessuna previdenza basta spesso ad evitare, cosí vi sono nel mondo morale, anime che sembrano aver l'incarico d'avvelenare ed imbrattare quanto le circonda di bello, di felice e d'onesto.
      Una signora romana era venuta a villeggiare alla Rocca; viveva sola con un bambino che allattava. L'avevo conosciuta in Roma dove, in quei tempi, la politica era lasciata a dormire, ed invece, da quindici a sessant'anni, uomini e donne non s'occupavano d'altro che di fare all'amore; e la signora Erminia, donna oltre i trenta, non poteva su questo particolare meritar rimproveri per tempo perduto o mal impiegato.
      Padrone del campo era in questo momento un mio amico. Buon giovane, mezzo pittore, mezzo cantante, che era altresí stato in scena, ma l'aveva abbandonata per un impiego modesto, meno esposto alle tempeste, che però lo teneva legato a Roma, e quindi lontano, ora, dalla signora Erminia.
      Grazie a quel facil vivere, che è il distintivo della società italiana da Firenze in giú, io le ero sempre per casa, senza che mi traversasse il cervello nemmen l'ipotesi che fra lei e me vi potesse mai essere nulla da spartire. Mi ricordo che quasi ogni giorno vi facevo un secondo pranzo, grazie ad una facilità di digestione distintiva dell'età e della carriera artistica. La mia riservatezza non aveva d'altronde verun merito. Caso mai, avrei cercato la grazia di Carolina e non i favori d'una donna che aveva dieci anni piú di me, e che, in un tempo in cui la pulizia delle signore romane non era delle piú vigilanti, si presentava nel pittoresco e profumato débraillé della balia in attività di servizio.
      Da questa signora, non è gran vanto l'avere ottenuto una benigna occhiata.


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Racconti leggende e ricordi della vita italiana
(1856-1857)
di Massimo d'Azeglio
pagine 890

   





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