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      Io mi trovavo portato naturalmente in mezzo a loro come genero di Alessandro Manzoni; conoscevo tutti, ma mi ero specialmente dimesticato con Tommaso Grossi, col quale ebbi stretta ed inalterata amicizia sino alla sua purtroppo precoce morte. A lui ed a Manzoni specialmente, desideravo di mostrare il mio scritto e chiedere consigli, ma di nuovo mi era presa la tremarella, non piú pittorica ma letteraria. Pure bisognava risolversi, e mi risolsi: svelai il mio segreto, implorando pazienza, consiglio e non indulgenza. Volevo la verità vera. Fischiata per fischiata, meglio quella d'un paio d'amici che quella del pubblico. Ambidue credo che s'aspettavano peggio di quello che trovarono, a vedere il viso approvativo, ma un po' stupito, che mi fecero quando lessi loro il mio romanzo.
      Diceva sorridendo Manzoni: "Strano mestiere il nostro di letterato; lo fa chi vuole dall'oggi al domani! Ecco qui Massimo: gli salta il grillo di scrivere un romanzo, ed eccolo lí che non se la sbriga poi tanto male".
      Quest'alta approvazione mi mise in petto un cuor di leone, e mi diedi a lavorare di nuovo con coraggio, tantoché nel 1833 potei intraprendere la pubblicazione. A ripensarci ora, mi trovo essere stato d'una bella impertinenza, a venirmene fresco fresco, io che non avevo mai fatto o scritto nulla, in mezzo a questi barbassori col mio romanzetto, e pubblicarlo franco come una spada.
      M'andò bene, e questo risponde a tutto.
      C'era allora una stamperia in via San Pietro all'Orto, diretta da un tal Ferrario, omaccione grande e grosso, antico giacobino della Cisalpina, uomo di onesta fama, tanto che in que' tempi di ladrerie franco-italiane era uscito immune d'ogni sospetto dalla gelosa missione d'andare a Loreto, mandato dal governo a dare una ripulita al famoso tesoro della Madonna.


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Racconti leggende e ricordi della vita italiana
(1856-1857)
di Massimo d'Azeglio
pagine 890

   





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