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      Tutti i Romani e le Romane (bisogna dirlo) portano in questo mondo, nascendo, una ferma risoluzione di voler essere allegri, e ci riescono alla barba del loro governo, che sembra risoluto precisamente al contrario.
      Quest'ottimismo, o spensieratezza che sia, è forse la qualità piú attraente in quella società di gente, che spesso non ha né casa, né tetto, né mezzi, né sicurezza di nulla per l'indomani, e che pure canta, ride, si diverte; è sempre in moto, e alla fin de' conti va in capo all'anno come la gente che riflette, né piú né meno; e ci guadagna di non prendersela di niente, e non s'ammala certo di spleen, come gl'Inglesi. Poveri Romani! Dio sa quel che fa a mantenerli spensierati; se no, starebbero freschi!
      In mezzo a questa compagnia passai un mese. Vi si trovavano Peppe Sartori e la sua famiglia: facevo vita con loro, e un po' aiutato, un po' aiutandomi, si campava. Ma del mio male morale, era ancora lontana la guarigione.
      Avevo un quadro da fare per Paolo Datti. Si beccavano quaranta scudi soli; ma, tempo di carestia pan di veccia. Lo feci; non c'era male.
      A quei giorni mi capitò innanzi un uomo che mi parve da studiare, ed io, che ho sempre trovato il mio conto a studiare piú sugli uomini che su libri, lo volli conoscere. Era costui il macellaio di Fiumicino, celebre ammazzasette, di cui si raccontava una certa diavoleria di ghetto, della quale volli sapere il certo.
      Una sera al caffè, dove tutti piú o meno capitavano, me lo feci insegnare; e presolo pel solito verso pel quale si maneggiano gli uomini grandi e piccoli - la vanità - che proprio sta all'uomo come il manico al canestro, l'ebbi presto condotto a un tavolino con un mezzo caldo davanti, nelle disposizioni piú espansive che si potessero desiderare.


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Racconti leggende e ricordi della vita italiana
(1856-1857)
di Massimo d'Azeglio
pagine 890

   





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