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      Il Pompili era a parte del gran segreto della mia perlustrazione dello Stato. Nel cominciare a discorrere insieme, presto m'avvidi d'aver per le mani un saggio del lavoro non facile (allora cosí credevo) che mi aspettava in su tutta la strada. Pensai "Dalla mostra si conosce la balla", e dicevo: "ci sarà da sudare".
      E cosí cominciai ad eseguire con lui il piano che m'ero fatto, per i miei futuri abboccamenti coi liberali che m'aspettavano.
      Il piano era composto di due operazioni. La prima, distruggere le idee vecchie: la seconda, proporre le nuove, sia relativamente alla questione generale italiana, che relativamente alla questione speciale dello Stato ecclesiastico.
      Le ragioni contro il sistema delle sètte, delle congiure, de' moti in piazza, ecc., sono state tanto ripetute che è inutile discorrerne: perciò la prima parte, del distruggere, non era difficile, ed ognuno immagina di quali argomenti mi dovessi servire.
      Ma la parte del ricostruire era piú scabrosa.
      A gente che soffre in tutti i modi immaginabili le infinite torture fisiche e morali del peggiore di tutti i Governi conosciuti, finché le si dice: "La via che avete corsa sin qui non può condurvi a nessun bene", si potrà piú o meno far intender ragione. Ma quando s'arriva all'articolo del da farsi, quando vi chiede d'insegnarle la via buona, e che si è costretti a rispondere: "Il da farsi per ora è niente", ovvero "la via da seguirsi è lo starsene fermi", allora c'è il caso che vi mandi a far benedire, e - per dir la verità, chi soffre e non ne può piú, se vi ci manda, è scusabile.
      È vero che non era nelle mie idee, che non vi fosse proprio da fare nulla affatto; ma a chi non vede molto lungi, a chi ha bisogno di seminar la mattina e mietere prima di sera, non è facile far intendere che certi effetti, in cose politiche specialmente, non riescono se non preparati alla lunga da cause, che non hanno con essi una relazione abbastanza apparente, perché possa essere afferrata da chi non ha un po' d'intelligenza, di coltura e d'abito di riflettere.


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Racconti leggende e ricordi della vita italiana
(1856-1857)
di Massimo d'Azeglio
pagine 890

   





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