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      Per impiegare quegli otto o dieci giorni che penava a venire, pensai di andarmene a rivedere le cose mie di Milano. Bisognava metterle in sesto in modo da non averci da badare per un pezzo; che una volta pubblicati i Casi di Rimini, sapevo bene che a Milano bisognava farci la croce.
      Dato ordine a tutto alla meglio che potevo, ritornai a Torino.
      Corsi subito da Promis, che mi restituí il mio manoscritto sorridendo, e spiattellandomi un No tondo come la bocca d'un pozzo. Io già me l'immaginavo; onde anch'io ridendo e dicendogli: - M'ingegnerò altrimenti, - intascai le mie carte e me n'andai a far la valigia per avviarmi a quel gran refugium peccatorum d'allora, che si chiama la Toscana.
      Questo caro paese presentava un fenomeno, del quale non ho mai trovata bene la spiegazione.
      La Toscana viveva sotto una legge non scritta in nessun codice, disarmata d'ogni forza apparente, eppure talmente rispettata ed ubbidita, che non lo è egualmente la Costituzione inglese; e poteva veramente dirsi la Magna Carta della Toscana. Le era soggetto, volesse o non volesse, anche il granduca; e se questi le voleva disubbidire, tutti lo piantavano di fatto e si trovava solo. La formola ufficiale di questa legge non esisteva, si sentiva e si seguiva senza darle la forma della parola. Se dovessi esprimerla, lo farei con queste due: lasciar correre.
      Le sue applicazioni negl'individui, ne' privati, nel governo erano continue. innumerabili. Se un giovane era scapato, se una ragazza faceva all'amore, se una donna era civetta, dopo un po' di tramenío per la forma.... lasciamo correre. Se una famiglia si dissestava, se i contadini, i fattori rubavano, si gridava un momento.... poi, lasciamo correre. Se la polizia faceva una legge e nessuno le badava, erano 24 ore di qualche rigore, e poi.


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Racconti leggende e ricordi della vita italiana
(1856-1857)
di Massimo d'Azeglio
pagine 890

   





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