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      Che cosa fecero per meritarlo? Seppero colle lagrime, col sangue, colla rovina di molti stabilir la loro potenza, aumentare i loro tesori, appagar la loro ambizione; ciò che significa in sostanza che essi vennero chiamati eroi perché trovarono il modo di far del bene a sé facendo patir gli altri. Bello e difficile eroismo veramente! Ma non importa; son contento di chiamarlo tale a un patto però, che mi si dica allora qual nome sarebbe da darsi a quelli che invece si contentano di patire essi per far del bene al prossimo?
      Pensi ognuno quel che vuole; io per me chiamerò sempre eroe chi sagrifica il suo bene al bene altrui, e chi fa il contrario lo chiamerò sempre un egoista briccone; e se ha molto ingegno, molta potenza di mente per servire questo suo egoismo, ed eseguire queste sue bricconerie non starò per questo ad ammirarlo come le rane d'Esopo ammiravano la cicogna; dirò piuttosto "tanto peggio per la povera umanità".
      Ma per esser chiamato eroe basterà forse non far del male, e far anzi un qualche bene? Eh! ci vuol altro!
      Non chiamerò eroe niente affatto, per esempio, quel ricco che nuotando tra le delizie, soccorra uno che muor di fame con una minima parte del suo superfluo, senza sentirne un incomodo al mondo, ed anzi comprando a cosí poco prezzo il nome di buono, e di generoso, e le lodi degli adulatori che lo portano al cielo.
      Ma chiamerò invece eroe quel povero, che visto altri piú povero, piú infelice di lui, trova bastante per dividerlo seco quel pane che prima stimava scarso alla propria fame; che avendo pochi panni pure gliene dona una parte; che in un misero tugurio, mal provvisto d'ogni bene, sa pur trovar di che metter insieme un piccol dono. E la prudenza, dirà taluno?


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Racconti leggende e ricordi della vita italiana
(1856-1857)
di Massimo d'Azeglio
pagine 890

   





Esopo