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      Si trovava condotta senza avvedersene ad una condizione cui deliberatamente non sarebbe venuta giammai; e, guardandosi indietro, considerava la via percorsa con un misto di spavento e di meraviglia, né potea darsi pace che ad un principio cotanto innocente, qual era stata la sua pietà di Lantelmo, avesser tenuto dietro conseguenze, che allora le sembravano tutt'altro che innocenti.
      Pensieri analoghi turbavano il Templario; e ne' pochi momenti lucidi che gli concedeva la sua ardente passione, accusava se stesso di poco senno, si chiamava vile e disleale. Ma, in ambedue, queste idee servivano a render piú doloroso il male, e non valevano a guarirlo. Ambedue provavano un senso di malcontento, che facea parer loro preferibile lo stato di prima, eppure non tentavano di tornarvi: ciò parrà incredibile, particolarmente in Lantelmo, eppure era cosí, e cosí sarà sempre in casi consimili. Ed a vedere poi con quanta spensierata facilità si mettano in codesti travagli uomini, cui non manca né esperienza né senno, si vorrebbe pure trovar loro una qualche scusa; ma una sola ne conosciamo, che non possono far altrimenti.
      Né si tacci di fatalismo questa sentenza. Chi ha molto veduto, sa che, intesa con discrezione, è purtroppo vera.
      Quando abbiam trovato Lantelmo nel giardino, già da piú d'un anno durava questo stato, infelice per ambidue e piú pel Templario, che, oltre alle altre angustie, soffriva di giunta il supremo de' tormenti, la gelosia.
      In Azzone, però, non era entrato sin allora verun sospetto; parte, non potendo immaginare che, in uomo di tanta gravità, trovassero luogo pensieri d'un colpevole amore; parte, avendo l'animo tutto avvolto alle cose del Comune, alla guerra ed alle sue prepotenze; e, per ultimo, non trovando motivi di risentirsi d'una intimità che, pei costumi del tempo, era assai frequente nelle corti de' principi e tra i gran signori, della quale nessuno in quella semplice età, e neppur i mariti, non facean sinistro giudicio.


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Racconti leggende e ricordi della vita italiana
(1856-1857)
di Massimo d'Azeglio
pagine 890

   





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