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      Eriberto, avvezzo a far tremare la Lombardia, stimò facile impresa render piú stretta la servitú de' Milanesi, i quali, invece, per lieve occasione d'un popolano insultato da un uomo dell'arcivescovo, si levarono in armi, e, cacciatolo dalle loro mura, strinsero sempre piú la lega, famosa nelle storie del tempo sotto il nome di Motta,(83) alla quale s'accostarono quanti piccoli valvassori ed uomini ligi soffrivano in Lombardia prepotenze da' loro signori.
      - Se l'imperatore non troverà riparo alle costoro violenze, ve lo troveremo noi colle leggi.
      Cosí andavan dicendo; e queste parole, mostrando che il popolo italiano s'era finalmente destato, annunziavano vicina l'aurora della libertà. Un tal Lanzone, de' grandi di Milano, s'era fatto capo della Motta ed, accortamente comportandosi, seppe per tre anni mantenersi in Milano contro gli sforzi de' nobili e dell'arcivescovo e riuscí ad ottenere il favore dell'imperator Corrado, il quale, insospettito della troppa potenza di Eriberto, offrí alla lega l'aiuto di quattromila cavalieri. Lanzone, che prevedeva quanti danni fossero per arrecare alla patria e ad ambedue le parti codesti stranieri, seppe farne persuasi anco gli avversari e condurli cosí agli accordi.
      Di questo virtuoso e grande Italiano, che offrí l'esempio, rarissimo e forse unico nelle memorie italiane, d'anteporre la carità di patria al trionfo della sua parte, non ci serbò la storia se non il nome: ma il nome almeno sia benedetto, e sia dagl'Italiani onorata sempre la sua memoria.
      Tornarono i grandi coll'arcivescovo in Milano a giusti patti e, quantunque non sappiamo in qual modo s'ordinasse allora il reggimento della città, da questi fatti e dai susseguenti si può con certezza inferire che da Eriberto principalmente avesse origine la grandezza e potenza, alla quale in progresso aggiunsero i Milanesi, come dalla Motta venissero posati i primi fondamenti dello Stato popolare, adottato in appresso da tutte le città lombarde.


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Racconti leggende e ricordi della vita italiana
(1856-1857)
di Massimo d'Azeglio
pagine 890

   





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