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      E Dio ti benedica la lingua, Inigo, fratel mio (e stretto lo teneva abbracciato), e t'avrò obbligo eterno della cura che avesti dell'onor nostro, nè in vita nè in morte me ne terrò sciolto mai. E le carezze per una parte, come le profferte per l'altra, non avean fine. Quietato un poco questo primo calore:
      - Qui, - disse Fieramosca, - è tempo non di parlare, ma d'operare. - E chiamato un servo, mentre l'ajutava vestirsi, veniva nominando i compagni che si sarebber potuti sceglier a quest'impresa, pensando far grossa compagnia più che potesse.
      - Molti, diceva, sono i buoni fra noi, ma la cosa troppo importa; scegliamo i migliori: - Brancaleone. È uno. Non vi sarà lancia francese che lo pieghi d'un dito, con quel pajo di spalle che ha a' suoi comandi. - Capoccio e Giovenale tutti e tre Romani: e ti so dire che gli Orazi non tenevano la spada in pugno meglio di loro. E tre. - Andiamo avanti: - Fanfulla da Lodi, quel matto spiritato, lo conosci? (Inigo alzò il viso aggrottando un poco le ciglia, e stringendo le labbra, come fa chi vuol ridursi a mente qualche cosa).
      - Oh lo conosci senz'altro! Quel Lombardo, lancia spezzata del signor Fabrizio... quello che l'altro giorno galoppava sulla grossezza del muro del bastione alla porta a San Bacolo...
      - Oh sì sì! - rispose Inigo, - ora mi ricordo.
      - Bene. E quattro. Costui finchè avrà le mani le saprà menare. Io sarò il quinto; e coll'ajuto di Dio farò il dovere. Masuccio, - gridò chiamando un famiglio, - bada che ieri si ruppe la guiggia dello scudo, falla aggiustare, e tosto; senti: alla spada grande ed alla daga pistoiese sia rifatto il filo, e... che volevo dirti?


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Ettore Fieramosca o la disfida di Barletta
(Racconto)
di Massimo d'Azeglio
Borroni e Scotti
1856 pagine 322

   





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