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      Grajano stava in cagnesco, e piuttosto volto al male; onde il conte alzandosi sul gomito il meglio che potè, gli disse: "Quanto possiedo al mondo sia vostro, ed abbiate in isposa questa mia figlia; ma sia salva l'onestà sua dalle mani di costoro". E Ginevra tremando per la vita del padre e per se stessa, non si seppe opporre. Due giorni dipoi il conte morì.
      Io mi morsi le mani pensando che se mi fossi trovato colà, forse non cadeva in balìa di questo ribaldo: ma non vi era rimedio. Mi tolsi di quivi, e tutta la notte andai vagando per le strade come forsennato; e più volte fui per finirmi. Per vera virtù di Dio pure mi rattenni. Il dolore, lo struggimento di cuore ch'io provavo era tanto, che le parole non ne saprebbero dire la millesima parte, con certe strette al petto che mi levavan l'anelito, e mi pareva ogni tratto di soffocare: nè potendo sopportar più una vita tanto dolorosa e travagliata, formavo i più strani consigli, le più pazze risoluzioni del mondo. Ora divisava di ammazzare il marito, ora d'incontrar la morte in qualche strano modo, onde mostrare a Ginevra che ero stato condotto a quel passo per amor suo, e mi confortava l'idea del rammarico che ne avrebbe provato; e d'una in un'altra di queste immaginazioni quasi uscivo di cervello. Stato così più giorni, una sera volli tentar la fortuna. Involto nella cappa, ottenebrata la vista, e colla capperuccia che mi scendeva sugli occhi, andai alla porta di lei e bussai. Si fece alla finestra una fante, e domandò chi volevo.


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Ettore Fieramosca o la disfida di Barletta
(Racconto)
di Massimo d'Azeglio
Borroni e Scotti
1856 pagine 322

   





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