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      E così deliberato con me medesimo, mi parve aver fatto un grandissimo guadagno, e mi sentii mezzo racquetato.
      Franciotto, che era stato meco dalla sera innanzi, uscì per veder un momento la bottega, e mi promise di tornar tosto. Io, posto mano alla daga (che è questa appunto ch'io ho accanto), volli far quell'effetto allora allora. Poi ripensato meglio che in quella sera si dovea far la sepoltura alla Ginevra, volli rivederla ancora una volta, e morirle vicino. Vestito così a bardosso, cintomi la spada, e preso l'ultimo mio bene, quella tracolla azzurra. uscii.
      Passato ponte, m'abbattei nel mortorio. Venivano i frati della Regola a due a due, e più compagnie di fratelli cantando il Miserere, prendevano per via Julia e Ponte Sisto, colla bara coperta d'un gran drappo di velluto nero.
      Io, se t'avessi a dire, a questa vista non mi smarrii punto; ma pensando che, se non in vita, in morte almeno saremmo uniti, che eravamo avviati all'istesso viaggio, e che una stessa stanza era per accoglierci ambedue, seguii pieno di funesta gioja e già tutto nel mondo di là, lasciandomi condurre senza badare ove s'andasse. Passato Ponte Sisto per Trastevere, entrammo in Santa Cecilia.
      Deposta la bara in quella sagrestia ov'è l'avello del figlio di Santa Francesca romana, io mi tenni da canto appoggiato al muro, mentre dai frati si cantavano l'ultime esequie. Alla fine sonò sotto la volta il Requiescat in pace.
      Tutti uscirono in silenzio ed io rimasi solo quasi allo scuro; non v'era altro lume che la lampada della Madonna.


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Ettore Fieramosca o la disfida di Barletta
(Racconto)
di Massimo d'Azeglio
Borroni e Scotti
1856 pagine 322

   





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