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      Udii alla lontana il bisbiglio ed i passi del popolo che usciva. In quella scoccò l'ora di notte, e camminava per la chiesa il sagrestano scuotendo il mazzo delle chiavi, e disponendosi a chiudere.
      Nel passarmi vicino, si accorse di me e mi disse: "Si chiude". Io gli risposi: "Ed io rimango".
      Egli guardatomi, e facendo l'atto di chi riconosce taluno, disse:
      - Sei l'uomo del duca? Troppo fosti sollecito... La porta rimarrà socchiusa; e poichè sei qui tu, io me ne vo pe' fatti miei". E senza udir altro se n'andò.
      Io poco gli davo retta; pure quelle parole mi fecero risentire, e non sapevo se egli od io sognavamo. Che duca? che porta socchiusa? Che vuol dire questo sciagurato? pensavo fra me.
      Pure lontano le mille miglia dal vero, nè essendo capace di molto ragionare in quei momenti, tornai presto nella prima risoluzione, e dopo breve spazio (tutto intorno era cheto) me ne venni col brivido della morte alla bara.
      Tolto il drappo che la copriva, e, tratta la draga che era forte ed acuta, mi posi a sconficcar la cassa, e durai gran fatica con quel solo ajuto ad alzar le capocchie de' chiodi; ma tanto feci che n'ebbi levato il coperchio.
      Il bel corpo stava avvolto in un lenzuolo vestito di panni bianchissimi. Io prima di morire volevo veder quell'angelo in viso ancora una volta. Mi posi ginocchioni, e andavo svolgendo i veli che mi toglievano quell'ultimo conforto. Alzai l'ultimo lembo, e apparve il volto di Ginevra: pareva una statua di cera. Tutto tremante calai la mia fronte sulla sua: ed alla sfuggita, che mi sembrò delitto, non potei fare di non baciarle le labbra.


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Ettore Fieramosca o la disfida di Barletta
(Racconto)
di Massimo d'Azeglio
Borroni e Scotti
1856 pagine 322

   





Ginevra