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      Il colpo in quel disordine non cadde dritto. Tagliò prima un corno netto come un giunco, poi il giaco e le vertebre, e si fermò alla pelle della giogaja, per la quale, il capo rimase ancora attaccato al busto che si rovesciò nella polvere.
      A questa incredibil prova s'alzò un grido universale di lode tanto romoroso ed istantaneo che parve uno scoppio di tuono. Paredes si lasciò cadere lo spadone ai piedi, rimase ansante per pochi momenti, ed il vermiglio del volto si cangiò in un pallore che però non fu lungo. Tosto l'attorniarono i suoi con festa. Chi ammirava lui, chi guardava lo spadone, chi l'ampia ferita, e la nettezza del taglio, ed intanto gli stromenti facean sentire suoni di vittoria.
      Lo Spagnuolo era uscito d'impegno; toccava ora a La Motta. Il bel colpo del suo antagonista lo metteva in pensiero; non poteva sperar d'uguagliarlo; e se anche riusciva (cosa molto dubbia) a troncare la testa al toro a collo nudo, sempre avrebbe avuta minor lode; e la sua inesperienza in questo genere di combattimento gli faceva prevedere che neppure saprebbe far tanto. In ogni modo conobbe non avrebbe saputo con onor suo uscir da questo passo, ed il dispetto che ne provava lo cavò di cervello.
      Quando venne lo Spagnuolo a domandargli se volea scender nell'arena, rispose negativamente con ingiuriose parole, e soggiunse che i cavalieri francesi a cavallo e colla lancia in pugno erano i primi del mondo, e come nobili e cavalieri volevano combattere e vincere cavalieri pari loro in giusta guerra; e l'arte di uccider tori la lasciavano ai villani ed ai beccai, onde gli si levasse d'innanzi, nè gli affastidisse più il cervello.


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Ettore Fieramosca o la disfida di Barletta
(Racconto)
di Massimo d'Azeglio
Borroni e Scotti
1856 pagine 322

   





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