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      Lo studio, col quale coglieva a volo tutti gli atti e le parole di D. Elvira, non dovette troppo riuscirgli grato; negli sguardi tremoli della giovane Spagnuola si leggeva quanto le andasse a versi il suo compagno; ed il suono degli stromenti, il moto, il prendersi per la mano spesso, e quella licenza che il ballo mette anche fra persone che in altre circostanze si tratterebbero a vicenda col maggior riguardo, avea prodotto nella figlia di Consalvo un'esaltazione di fantasia che poteva reprimere a stento. Ettore e Fanfulla se ne accorgevano egualmente; il primo ne provava rammarico, il secondo dispetto; e sempre, o con mezze parole o con occhiate d'intelligenza, tribolava Fieramosca, il quale non amando tali scherzi teneva un contegno serio, ed in parte malinconico, interpretato dalla donzella a suo modo, e questo modo era molto lontano dal vero.
      Alla fine D. Elvira con quell'arrischiata imprudenza, che era tutta sua, cogliendo un momento che teneva Ettore per la mano, si piegò verso di lui, e gli disse all'orecchio: - Finito questo ballo, andrò sul terrazzo che dà sul mare; venite, che voglio parlarvi.
      Fieramosca, colpito dolorosamente da queste parole che gli mostravan imminente un gravissimo intrigo, accennò col capo di sì, un poco mutato in viso e senz'altra risposta. Ma sia che le precauzioni di D. Elvira nell'abbassar la voce non fossero state bastanti, o che Fanfulla troppo stesse sull'avviso, il fatto si è che anch'esso udì quelle malaugurate parole, e bestemmiando in cuor suo la ventura che toccava a Fieramosca e non a lui, diceva fra denti: Che non vi sia modo di farla costar cara a questa pazzarella?


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Ettore Fieramosca o la disfida di Barletta
(Racconto)
di Massimo d'Azeglio
Borroni e Scotti
1856 pagine 322

   





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