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      Ettore dal canto suo era combattuto da vari pensieri: non gli passava neppur pel capo di dar retta alle lusinghe della bella Spagnuola, prima per esser nel cor suo troppo viva l'immagine di Ginevra, poi, anche senza questo motivo, avrebbe avuto senno abbastanza per non volersi dar buon tempo colla figlia di Consalvo; ed essa con siffatti modi non sarebbe mai stata tale da giungere al suo cuore, che non era Ettore di quelli, i quali in questo genere son sempre pronti ad afferrar l'occasione. Per un altro verso gli rincresceva di poter passare per iscortese, villano, e forse peggio; che pur troppo fra le contraddizioni umane v'è quella di voler chiamar cattive certe cose, e sciocco e dappoco nello stesso tempo chi non le vuol fare. Durante il resto del ballo andò sempre lavorando colla mente per trovar modo di salvar, come suol dirsi, la capra e i cavoli; e dopo aver molte volte mutato progetto, alla fine vedendo che il momento s'avvicinava, si dispose risolutamente a correr qualunque rischio prima di esporsi a far torto a Ginevra. E pensando che essa, mentre egli si trovava fra quelle feste, era in un povero chiostro in mezzo al mare, abbandonata da tutti, e probabilmente col pensiero in lui, si struggeva d'aver avuto anche un momento altri rispetti maggiori dell'amor suo, e perciò, appena finito di ballar con D. Elvira, sollecitò a levarsi da quel luogo e pensando metter per iscusa uno di quei mal di capo che servivano nel secolo XVI, come servono nel XIX in tante occasioni, si disponeva a lasciare il ballo ed andarsene a casa.


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Ettore Fieramosca o la disfida di Barletta
(Racconto)
di Massimo d'Azeglio
Borroni e Scotti
1856 pagine 322

   





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