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      Che direbbe Ginevra se mi vedesse tanto malamente mutato, e tanto freddo ai pensieri che un tempo mi facevan correr fuoco per le vene?
      E con queste riflessioni gli venne tant'ira di sè medesimo, che s'alzò infuriato, e rivestitosi, che ad ogni modo, non potendo dormire, il letto gli riusciva insoffribile, uscì sul terrazzo: sedutosi, come spesso soleva, sul muricciolo sotto la palma, dispose d'aspettar ivi l'alba, che non era molto lontana.
      La luna pallida e scema si specchiava appena nel mare. Lontano forse cinquecento passi, a mano manca sorgeva la rôcca, che a quell'ora poco potendosi distinguere ne' contorni, si mostrava come una gran massa bruna, e solo i merli posti in cima alle torri apparivano un po' distinti sul cielo. Ettore guardava sospirando quelle mura, pensando a chi v'era rinchiusa, ed ogni tanto gli sembrava sentire come un lontano mormorìo di salmeggiare alternato. Ma era tanto discosto, che gli pareva e non gli pareva: ad una finestra, che per esser sul fianco del castello egli non poteva vedere che di scorcio, v'era lume e non fu spento mai tutta la notte; avrebbe dato il sangue per non veder più quel lume, e volgeva gli occhi altrove dicendo: - Sono pur pazzo a tormentarmi con tali fantasie; - poi non poteva a meno di non rivolgervi gli occhi, e quel lume era sempre là.
      Con quella specie di malafede che spesso adopera l'uomo con sè medesimo, quando è vessato da un dubbio importuno, si diede a volersi persuadere ciò che nell'intimo del cuore non credeva affatto, cioè che Ginevra era in buono stato, che non le era accaduto nulla di sinistro, e che tutto il mistero, che pure scorgeva in questa faccenda, era un'idea sua, una vana immaginazione.


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Ettore Fieramosca o la disfida di Barletta
(Racconto)
di Massimo d'Azeglio
Borroni e Scotti
1856 pagine 322

   





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