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      Ma il negare l'esistenza di quel principato, parmi a un tempo negazione di fatti, solenne ingratitudine ai nostri migliori, ed ignoranza dei veri interessi della lingua; la quale non si può mantenere viva e bella in niun luogo, come in quelli ov'è universalmente e volgarmente parlata.
      Errò egli, dunque, Dante non riconoscendo il principato, osservato da lui e preteso da' suoi contemporanei, del proprio dialetto? Certo sì, a parer mio; ma potè essere indotto in errore dalla novità di tal fatto non universalmente riconosciuto, se non appunto dopo lui, e per effetto di lui; e forse da quella sua natura larga, e per così dire eclettica, che gli faceva abbracciare tutte le scienze, scrivere in tutti gli stili, accettare tutti i dialetti, e raccogliere da tutti questi, ed anche dalle lingue straniere, tutte le parole che gli venivano in acconcio. E certo, tal modo di sentire doveva tanto più valere in lui, se, come vedremo probabile, ei rivolgeva fin d'allora in sè il pensiero di scrivere il Poema in quel volgare di che ei veniva cercando le regole. Nè è mestieri così d'apporre a Dante il ristretto e vil pensiero di voler per vendetta torre il vanto della lingua alla propria città. Non sogliono gl'irosi essere vendicatori; e chi si sfoga in parole alte ed aperte, non si vendica poi con altre coperte ed indirette. Il fatto sta, che questo scritto, citato da alcuni qual frutto dell'ira di Dante, è assolutamente puro d'ingiurie a Firenze; sia che la feroce ma gentile anima di lui vedesse di doversene astenere qui, dove dava giudicio contrario ad essa d'un vanto di essa; sia perchè questo, come il Convito, furono scritti in tempo di maggior mansuetudine di lui, in uno di que' periodi d'amore e desiderii, a cui non isfugge niun esiliato, o almeno niun buono, mai.


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Vita di Dante
di Cesare Balbo
pagine 525

   





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