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      E Dante, che poc'anzi, tra i desiderii della discesa e il timore che non s'effettuasse, aveva scritte le sue imprecazioni poetiche ai predecessori quasi ammonizioni ad Arrigo, ora poi esprimeva la gioia sua e dei compagni d'esilio in una lettera che abbiamo senza data, ma che si vede dover essere del tempo che Arrigo era sulle mosse, e perciò d'intorno alla metà di quest'anno 1310. Scritta, come le altre in latino, ma anticamente volgarizzata, ella è diretta «a tucti, et ad ciascuno re d'Ytalia, et a' sanatori di Roma, et duchi, marchesi, conti, et a tucti i popoli, lo humile Ytaliano Dante Allighieri di Firenze, et confinato non meritevolmente, priega pace.» Ambiziosa direzione, per vero dire, e che fa credere fosse questa epistola, come quella che vedemmo ai principi della terra dopo la morte di Beatrice, non più che uno sfogo, forse non pubblicato allora, de' suoi pensieri; non più che una finzione letteraria e quasi poetica della propria fantasia. Certo, ella è piena di tali erudizioni e dotti argomenti, ch'erano bensì nel gusto dell'età, ma certo mal atte a muovere o il buono e rozzo imperadore, o i suoi non dissimili Tedeschi. Incomincia con espressioni bibliche della gioia dello scrittore; poi segue alquanto più precisamente: «Rallegrati oggimai, Italia, di cui si dee avere misericordia; la quale incontanente parrai per tutto il mondo essere invidiata eziandio da' Saracini; perocchè 'l tuo sposo ch'è letizia del secolo e gloria della tua plebe, il pietosissimo Arrigo, chiaro accrescitore e Cesare, alle tue nozze di venire s'affretta.


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Vita di Dante
di Cesare Balbo
pagine 525

   





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