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      Pur l'anime che son di fama note,
      Che l'animo di quel ch'ode, non posaNè ferma fede per esempio ch'haia
      La sua radice incognita e nascosa,
      Nè per altro argomento che non paia.
      Parad. XVII. 103-142.
      Se s'avesse a fare un commento delle bellezze poetiche e morali che sono in questo passo, non basterebbero parecchie pagine. Ciò solo farò osservare in generale, che lor bellezza si accresce di gran lunga al pensiero del luogo e del tempo in che, e della persona a cui dicevasi tutto ciò. In particolare, si osservino i versi dal 106 al 111, dove si contiene una evidente previsione di dover lasciare la corte di Can Grande. Il luogo più caro del verso 110 è certo Firenze; e tra gli altri ch'ei prevede di perdere, è Verona stessa. E certo, poi, quel colpo più grave a cui più si abbandona del verso 108, che non veggo spiegato da nessuno, diventa chiarissimo, intendendolo per la respinta, per li cattivi, i freddi trattamenti temuti o incominciati, i quali appunto sono più gravi a chi più s'abbandona.
      E la storia, le tradizioni, le date, i casi posteriori di Dante, il non aver esso mandati a Cane gli ultimi tredici Canti, tutto prova una rottura; una, se non inimicizia, ma mala intelligenza tra il superbo protetto, e il magnifico protettore. A chi la colpa? Io ne raccolgo le memorie superstiti; e crederanne ognuno poi a suo talento, o forse secondo la natura e la fortuna sua. E prima, avvertito il lettore, che il Petrarca, il secondo in tempo e in grandezza fra' tre padri della lingua nostra, fu molto minor del buon Boccaccio nella venerazione al comune lor predecessore; prendiamo da lui la seguente narrazione: «Dante Alighieri, mio concittadino, fu uomo chiarissimo nel sermone volgare; ma nel costume e nel parlare alquanto per la sua contumacia più libero che non piacesse alle delicate e studiose orecchie, ed agli occhi dei principi dell'età nostra.


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Vita di Dante
di Cesare Balbo
pagine 525

   





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