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      - Che diamine mi manda a fare qui mio padre? - pensava.
      Giunto sul primo pianerottolo, vide tre porte dipinte in rosso d'Etruria e senza intelaiature, tre porte perdute nella muraglia polverosa e guarnite di strisce di ferro con chiavarde terminate a mo' di fiamma, com'erano le due punte della serratura.
      Una di esse, quella che dava adito alla stanza posta sopra la cucina, era stata murata e vi s'entrava solo per la camera di Grandet, a cui quel locale serviva da studio. L'unica finestra che potesse dare un po' di luce rispondeva sul cortile ed era difesa da enormi spranghe di ferro. Nessuno, neanche la signora Grandet, poteva entrarvi, perché il buon uomo usava chiudervisi solo, come un alchimista innanzi al fornello. Là, senza dubbio, era dissimulato con abilità qualche nascondiglio, dove scomparivano i titoli di proprietà; in quella stanza pendevano le bilance per pesare i luigi, e nel segreto della notte Grandet vi faceva conti e ricevute; la gente d'affari, trovando sempre Grandet pronto a tutto, era quasi tentata di credere che avesse ai propri ordini una fata o un demonio. Là, senza dubbio, quando Nannina russava forte da scuotere il soffitto e il cane vigilava abbaiando nel cortile, mentre le due donne erano immerse nel sonno, si rinchiudeva il vecchio bottaio per depositare l'oro, per carezzarlo, covarlo e metterlo al sicuro sotto i chiavistelli. Le mura erano doppie, le imposte discrete; lui solo aveva la chiave di quel laboratorio, ove si diceva che esaminasse le mappe dei suoi frutteti per calcolarne minutamente il prodotto.


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Eugenia Grandet
di Onorato di Balzac
pagine 215

   





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