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      Sembrava un beccaio, con le sue braccia tinte fino ai gomiti di sangue innocente.
      E stroncò anche il grande poeta, suo amico, per dimostrare con una prova definitiva d'esser lui, proprio lui l'unico genio vivente.
     
      IL PRINCIPE BENAMATO.
     
      C'era una volta un giovane ardito, ma ardito, aiutatemi a dire ardito. Non temeva nè Dio nè il diavolo e sentiva due soli desiderii: diventar ricco e imporsi all'ammirazione altrui.
      Diceva spesso:
      - Quando sarò ricco e ammirato, potrò infischiarmene della legge e operare a dritto e a rovescio secondo il mio capriccio.
      Come si vede, egli conosceva a menadito le faccende di questo mondo.
      Tanto per cominciare, con i pochi denari ereditati dal padre aprì un'agenzia di prestiti sovra pegno: e dichiarò che avrebbe dato il denaro senza interesse. Le persone dabbene non ne approfittarono, poichè non potevano offrire come pegni che poche oleografie o, al massimo, una mezza dozzina di posate d'argento. Ma, in compenso, fu un corri corri di individui dall'apparenza incerta e dai vestiti ancora più incerti, i quali vennero a depositare umilmente gli oggetti più disparati: mucchi di biancheria finissima, orologi e catene d'oro, pellicce di lontra, fasci di cartelle di rendita, naturalmente nominali. Riscuotevano il decimo del valore, poi, vattelapesca perchè, non si facevan più vivi. Il giovane, dal suo canto, non volendo che così bella roba andasse sciupata, liberava le gemme dall'incastonatura per trovar loro con maggior facilità un acquirente, fondeva i metalli preziosi, forse per passare il tempo, e, odiando l'ozio anche negli altri, induceva una sua amante a occupare le giornate col togliere le iniziali dagli angoli della biancheria.


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Commenti al libro delle fate
di Pierangelo Baratono
Fratelli Treves Milano
1920 pagine 119

   





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