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      - Sebbene io non comprenda, - insistè dolcemente il gobbino, - come si possa disprezzare il maggior regalo che il cielo abbia la facoltà di concedere, ti scongiuro di rivelarmi l'arcano e di considerarmi fin da questo momento il più devoto dei tuoi amici.
      - Sappi, dunque, o amabile incognito, che io sono chiamata, nelle mie contrade, la bella melensa. Arrossisco nel confessarlo, ma devo riconoscere che il nomignolo mi è proprio adattato.
      - Permettimi di dubitarne, - la interruppe il gobbino. - Le tue parole sono profumate di soave ingenuità, ma dimostrano che non sei una sciocchina, come vorresti far credere.
      - Oh, se tu mi conoscessi meglio, - ribattè la bella melensa, - ti esprimeresti in modo diverso. Sappi che alcune mie risposte han dato materia di risate per anni, e che certe mie interiezioni servon di ritornello ai canti dei bevitori, nelle sere di festa.
      - Forse l'imbarazzo in cui ti ponevano le occhiate bramose e gli arditi discorsi degli uomini, con i quali conversavi, avrà inceppato la tua lingua; - insinuò il gobbino.
      - Dev'esser proprio così, - esclamò la bella melensa battendo l'una contro l'altra le palme con un gesto di sbarazzina; - oggi, infatti, ch'io non temo d'esercitare il mio funesto fascino e di subire, in contraccambio, il diligente esame provocato dalla curiosità, i miei discorsi sono assai meno impacciati e i pensieri non svaniscono, come di consueto, fra le nebbie del turbamento. Ciò non toglie, però, ch'io darei intiera la mia bellezza pur di ottenere un poco di quella vivacità di spirito che indovino in te, o fortunato amico.


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Commenti al libro delle fate
di Pierangelo Baratono
Fratelli Treves Milano
1920 pagine 119